In uno dei suoi romanzi più celebri, lo scrittore italiano — e portoghese di adozione — Antonio Tabucchi, racconta la storia di un uomo che vaga in una Lisbona sopraffatta dal caldo, passeggiando tra le strade piene di vita della città e soffermandosi con qualche estraneo, tra il romantico e il popolare, a discutere sul tema della vita.

Proprio con questo spirito interrogativo io e Riccardo ci muoviamo nella stessa città, dopo aver risalito le strade tortuose che dal mare portano al centro, passando per quei vicoli pittoreschi colorati di azulejos, le piazze dense di bambini che giocano e i vecchi che presiedono le panchine, stretti tra le vetrine fumanti delle tasche portoghesi, fino ad arrivare a Rua Silva Carvalho, dove una porta senza insegna ci introduce alla caverna bianca, così la chiamano quelli che ci lavorano dentro, meglio conosciuta come lo studio di Manuel Aires Mateus.
Ancora ammaliati dall’atmosfera della città, decidiamo di cominciare la nostra conversazione proprio da qui.

AC. Lei è nato e cresciuto in Portogallo. Come è stato influenzato dall’atmosfera di Lisbona? Quale è l’ambiente culturale in cui è cresciuto e che successivamente ha condizionato il suo fare architettura?

MAM. In questo senso, forse la persona che ha influenzato di più il mio fare architettura è mia madre, sebbene non sia architetto, ma pittrice. Ha sempre avuto attorno a lei un gruppo di persone che si occupavano di differenti attività artistiche: scultori, scrittori, altri pittori e persino architetti. Io sono cresciuto all’interno di questa cornice, fino a comprendere una relazione fra tutti questi ambiti. Ho vissuto questo contesto in modo molto naturale, spontaneo, senza mai discutere con loro di cosa fosse l’arte, ma vivendola nella quotidianità. Questa è stata la più grande influenza nella mia educazione.

Tra questi suppongo ci sia stato anche Gonçalo Byrne, di cui so essere stato allievo. Ci sono altri architetti che l’hanno influenzata durante la sua formazione?

Vero, Byrne mi ha sempre influenzato, ho sempre avuto rapporti con lui fin da quando ero molto piccolo. Poi c’è stato Alvaro Siza, una persona centrale per la prima parte della mia formazione e quella di mio fratello. Poi devo dichiarare anche un terzo architetto, specialmente per il rapporto che abbiamo avuto con lui, la sua vicinanza: quando abbiamo iniziato a insegnare a Mendrisio, Peter Zumthor è diventato importante; non tanto perché l’abbiamo conosciuto di persona, perché per i primi anni non abbiamo mai parlato con lui, ma perché andavamo a vedere le sue opere. Adesso possiamo dire di conoscerlo, e, anche se non abbiamo con lui un rapporto intimo, non posso negare che la sua vicinanza sia stata importante nella nostra crescita.

Vorrei tornare ancora più indietro nel tempo. Immaginiamo che lei abbia la possibilità di assumere oggi nel suo studio uno degli architetti del passato, di qualsiasi periodo storico, chi assumerebbe?

Questa risposta è facile, Francesco Borromini.

Per quale motivo?

Perché aveva davvero capito la libertà dello spazio, era il suo tema centrale.
Io mi ricordo che l’edificio che ci ha influenzato di più nella nostra vita è stato il San Carlino a Roma, perché vi si può trovare proprio questa libertà spaziale, la scoperta di poter avere uno spazio di tipo pubblico e uno privato. Borromini col suo fare architettura ha disegnato, nella libertà di definirli indipendentemente, il rapporto tra i due.

 

 

Le leggo una definizione di Francesco dal Co sul vostro fare architettura “nell’architettura dei fratelli Aires Mateus c’è spesso un vuoto centrale attorno al quale dei volumi geometrici, più o meno manipolati, sono sono variamente organizzati”. Vorrei approfondire i due termini, quindi da una parte il vuoto, dall’altra i volumi. Innanzi tutto, come si relazionano tra di loro e quale dei due ha priorità nella genesi del progetto?

Il nostro percorso progettuale inizia sempre con una domanda. E molto spesso questa riguarda il tema della vita. L’architettura deve avere un rapporto molto stretto con la realtà e quindi con la vita. Interrogandosi in questo ambito emerge sempre la domanda di come decidiamo di confinare la vita, di come decidiamo di definire, quindi, uno spazio entro il quale essa si svolge. L’architettura disegna proprio spazi e quello che concretamente si costruisce è il limite dello spazio. Per cui direi che ciò che un architetto fa è costruire uno spazio centrale, poi la materia sta nei volumi attorno. Noi abbiamo provato a radicalizzare questa idea, mettendola alla base dei nostri ragionamenti, portandola avanti sia alla scala infrastrutturale che in interventi a scala minore, nel senso che il limite acquisisce la proprietà di un limite doppio. La verità è che lo spazio è davvero centrale. Ultimamente mi incuriosisce pensare alla definizione di spazio, ho ancora bisogno di riflettere su questo perché non ho scritto niente al momento. Quello che mi interessa nella definizione di spazio, che sia un interno o una piazza, è il rapporto fra l’uomo e le possibilità del limite. Mi interessa ragionarci perché riporta l’uomo ad essere centrale nel progetto di architettura.

La centralità dell’esperienza spaziale, devo ammettere, è una questione che trovo similare a quella dell’architettura giapponese.
Poi c’è questo tema del recinto, il limite, che ho notato essere davvero una presenza ricorrente nei vostri progetti.

L’identità del limite mi interessa moltissimo. Nell’ultima biennale di Venezia abbiamo lavorato sull’idea del limite, un limite intuito, non tanto fisico, il limite come elemento di comprensione. Da sempre il limite è il dove si costruisce l’architettura: per fare l’interno quello che costruiamo è un limite, un recinto. Una volta, definendo il nostro fare architettura, abbiamo fatto una battuta: noi progettiamo spazi similmente a quelli di Kazuyo Sejima, ma il nostro limite è “ingrassato”, pesante e non leggero. Siamo dei “Sejima ingrassati”.

Approfondendo il tema limite, vorrei prendere in considerazione alcuni progetti: la Casa Alvalade, la scuola a Vila Nova da Barquinha, o la Casa de Alentejo… mi scuso per la pronuncia del portoghese…

Invece è molto buona. Lo pronunci bene.

Grazie, pure il suo italiano è impeccabile. Dove lo ha imparato cosi bene?

Innanzi tutto considera che, insegnando a Mendrisio, lo parlo per insegnare. L’italiano l’ho imparato con Bernardo Secchi, che mi ha obbligato a parlarlo nel suo studio, quando ancora non conoscevo nemmeno una parola. Lui mi disse che con gli italiani non avrei avuto altro modo di comunicarci se non con la loro lingua. Ho tentato così tanto che ad un punto l’ho imparato. Poi l’italiano ha tante cose simili al francese.

So che padroneggia molto bene anche il francese, infatti.

Quando studiavo, a scuola il francese era la seconda lingua, sono stato l’ultimo di quella generazione. Mio fratello invece, che ha un anno in meno di me, ha studiato inglese.

In studio ho notato che molti parlano italiano.

Perché alcuni sono proprio italiani. Molti invece hanno studiato a Mendrisio con me. Mi sono perso, quale era la domanda?

 

 

 

Anche io. Ritorno alla domanda, Sempre sul tema del limite, ho notato come, nella Casa Alvalade, la scuola a Vila Nova da Barquinha, o la Casa de Alentejo, e altri progetti ancora, ci sia una strategia ricorrente nell’organizzazione planimetrica: un recinto all’interno del quale le funzioni vengono organizzate in dei box. Questa strategia ha un significato particolare?

Torna l’idea del perimetro, che per noi è una certezza, l’idea che sia importante definire molto chiaramente il limite dell’intervento, che esso abbia un confine chiaro e riconoscibile. Ma io non guardo mai le similitudini fra i progetti: ho l’idea che se un progetto si fa bene, si fa partendo da zero, tornando il più indietro possibile, per cominciare con più libertà. Per questo alcuni progetti alla fine possono avere la stessa strategia, ma non la stessa genesi. La scuola, per esempio, tra i progetti che hai citato, ha una strategia che deriva dal disegno del programma. Per noi è stato importante non avere alcuno spazio di circolazione, ma avere solo spazi: così abbiamo disegnato una sola porta e una sola finestra e abbiamo usato sempre quelle, gli spazi sono attaccati gli uni agli altri. Nella zona periferica abbiamo localizzato le funzioni pubbliche, mentre nella parte centrale le classi; fra di loro c’è un labirinto, che era un’altra cosa richiesta dal programma. Ma, a parte la manipolazione del programma, mi viene da dire che ovunque ci sono gli stessi infissi e il principio comune che ordina la distribuzione è quello che ti ho spiegato. Ma ciò che va a differenziare e caratterizzare gli spazi è la proporzione, possiamo ridurre tutto il progetto ad un lavoro sulla proporzione. Alcune volte abbiamo spazi stretti, altre volte alti e profondi, altre bassi.
Nei progetti delle abitazioni invece abbiamo ragionato sulla luce, sul modo in cui essa entra negli spazi. Non hanno niente a che vedere l’uno con l’altro. Tra i due casi uno è un lavoro sull’archetipo, l’altro sulla topografia. Molto diversi tra loro. La diversità è molto importante per noi, anche se alla fine l’osservatore va a cercare le similitudini. Ovviamente io li vedo tutti diversi uno dall’altro, come se fossero dei figli, mia moglie, invece, dice sempre che le nostre case sono sempre tutte uguali, tutte quadrate. La mia ambizione è comunque che ogni mio progetto sia indipendente. Parlare di similitudini secondo me…

Non ha senso a priori?

Esatto, per me sono come figli, non riesco a non concentrarmi maggiormente sulle specificità.
Quello che mi interessa è ciò che è unico in ogni progetto, non creare delle similitudini tra l’uno e l’altro.

 

 

Ritornando al vuoto. Ci sono molti tipi di vuoto, ma quando possiamo definire un vuoto architettonicamente riuscito? Secondo lei quali sono le caratteristiche che rendono un vuoto uno spazio di qualità? Quali sono i principi che lo regolano?

Questo si collega senz’altro con la qualità dell’architettura. L’architettura è un’arte incompleta, non è come la pittura o la scultura; ha bisogno di un altro layer per completarsi: la vita. Per questo un vuoto assume qualità quando si può adattare nel tempo e non è destinato ad una sola funzione, ad una sola persona. Io credo che la migliore scuola sia quella che sorge dalle rovine di un vecchio convento, come credo che il migliore ufficio che si possa avere è quello che si recupera dentro una vecchia chiesa. Questi sono spazi adatti a tutto. La qualità di uno spazio lo rende flessibile, resistente alla vita e nel tempo. Oggi si sente parlare spesso di ecologia: questa è la vera ecologia, l’architettura che ambisce a diventare eterna. Immagino tante volte, quando penso ad uno spazio, come sarebbe per me ristrutturarlo: se è facile è uno spazio buono, se non è facile non lo è.

Si parla quindi di edifici che mostrano la capacità di essere trasformati, che hanno la possibilità di avere una seconda vita.

Certamente. In Italia ci sono questi spazi che hanno fatto la storia e sono ideali per la vita. Pensa, puoi immaginare qualsiasi cosa dentro un vecchio convento. Questi spazi sono di qualità perché hanno la possibilità di farsi eterni: non sono immaginati univocamente con una sola funzione, sono progettati per la vita. Un discorso molto più ampio della semplice funzionalità.

Torno al secondo termine della definizione iniziale, “i volumi più o meno manipolati e variamente disposti”. Ho notato una ricorrenza nell’utilizzo dei solidi notevoli, o altri volumi che possono essere ricondotti a queste forme semplici. Perché crede che le figure geometriche siano così attraenti?

Quello che mi attrae è un esercizio semplice sulla memoria. La realtà è composta da un fattore palpabile e uno pre-concettuale ed è una combinazione di questi due approcci, uno concreto e uno culturale, di memoria. Quando noi evochiamo le figure che hanno risonanza nella nostra memoria, possiamo amplificare lo sguardo sulla realtà. Cito l’esempio del cuoco di Barcellona, Ferran Adrià, uno dei più famosi chef, che ha rivoluzionato la cucina mondiale. Una volta ha cucinato un gelato molto particolare: mentre nella memoria collettiva il gelato è qualcosa di dolce, lui lo fece estremamente salato, mantenendone l’aspetto. L’esperienza che il cliente aveva andava dalla distanza tra la realtà di ciò che aveva assaggiato e la pre-concezione di ciò che aveva nella sua memoria, il sapore ha percorso tutta la distanza che c’è tra i due, ed è lì nel mezzo che risiede l’esperienza, il contenuto. Per noi quello che ci interessa nell’architettura è provocare la comprensione della distanza tra quello che una persona ha in mente, i solidi notevoli, e la realtà che tocca, quelli manipolati.

Qualcuno potrebbe definire l’esperienza delle vostre architetture una contemplazione, come se i vostri spazi avessero il potere di suggerire un principio di meditazione. Possono i vostri progetti avere in qualche modo una dimensione spirituale, indipendentemente dalla tipologia?

Sì, c’è questa ambizione nelle nostre architetture, ma non c’è la nostra volontà di farlo.

Quindi è accidentale?

In parte. La cosa che mi preme è che l’esperienza della spazialità distacchi il visitatore dal banale, che lo porti ad una percezione diversa della realtà. Ci siamo confrontati diverse volte con la pittura, con quelle immagini particolari che ti portano fuori dalla banalità; che sia la spazialità a farlo ti capita, talvolta, ma è una condizione decisamente rara da ottenere, perché spesso lo spazio non basta, è una questione che coinvolge tutto il contesto. Se lo spazio ti eleva dal tuo banale, ti può portare ad una situazione di confronto con una realtà più alta, che forse qualcuno potrebbe definire di spiritualità.

C’è stata un’evoluzione nel vostro processo progettuale nel corso del tempo? Quale è il tema più importante di cui avete cambiato idea durante la vostra carriera?

C’è qualcosa che è cambiato molto chiaramente, e posso dirlo con certezza: il rapporto con il tempo. Inizialmente l’architettura la facevamo per il giorno in cui l’opera veniva completata; adesso la facciamo con l’aspirazione di una vita più lunga possibile. Direi che questa idea di rapporto con il tempo è stata il cambiamento più chiaro nel nostro lavoro.

Dopo la rivoluzione digitale il mondo dell’architettura è cambiato molto. Quale è il ruolo dell’identità culturale dell’architettura, come ad esempio, nel vostro caso specifico, quella portoghese, conseguentemente alla rivoluzione digitale?

A mio avviso in corso c’è una rivoluzione importante nell’architettura, dal punto di vista tecnologico, che è la rappresentazione digitale, che comporta una più grande capacità pre-visualizzazione dell’architettura. Ovviamente questa possibilità digitale, le capacità di un computer, forse ha anche influenzato alcuni architetti, però, come dice Siza disegnando una sedia, le stesse forme le utilizzavano anche gli Egizi per sedersi. Quando vedo le rovine dei Romani e osservo le loro case, noto che non sono poi così diverse da quelle che abitiamo noi. In termini di sviluppo tecnologico, l’architettura assorbe tutto ciò che è nuovo: disponibilità, possibilità e influenze di ogni genere, perché è strettamente collegata alla realtà. Se parlassimo di una trasformazione, si potrebbe paragonare ad una automobile: trenta anni fa guardavi il motore di una macchina e capivi tutto, oggi se vi si guarda all’interno c’è un circuito digitale e non si capisce niente. L’architettura trenta anni fa era meccanica, era fisica, adesso è anche chimica. C’è una parte dell’architettura che non si può disegnare, come la nanotecnologia. Questa è stata una rivoluzione molto grande nell’architettura.

In accordo a questa rivoluzione, non stiamo correndo il rischio, aldilà dell’eredità del movimento moderno e della sua ambizione, di avere un’architettura internazionale, lo stesso tipo di edificio in qualsiasi luogo del mondo?

Questa ha a che vedere con la dimensione del mondo. Il mondo è piccolissimo, posso andare dalla parte opposta del globo e tornare nello stesso giorno.

E questo che conseguenza ha nel progetto?

È una realtà che si deve capire: per esempio è molto negativo che un’unica influenza stilistica diventi dominante in Europa, sopratutto se appartiene ad un’architettura di paesi che non hanno nessuna storia, paesi fatti ex novo, allo stesso modo in cui in Oriente, nella Cina o nell’India, si tenta di importare un modello senza capirne il contesto. Per me il contesto fa parte della realtà e per quello è fondamentale. Ma io credo che la buona architettura non rischierà mai di diventare generica, per definizione una buona architettura non è generica.

 

 

Si parla quindi di specificità come fattore identificativo della buona architettura.

Esatto, se è specifica contiene del significato.

Quale è il ruolo della natura oggi nel progetto di architettura?

Io credo che la cosa più importante, nei confronti della natura, sia il rispetto. Il rispetto non vuol dire imitare; rispettare è comprendere il bilancio fra l’artificio e la natura, perché questi vivano insieme senza sforzo. Ciò che sembra natura, oggi, è in realtà la cosa più artificiale che esista: possiamo considerare la città meno artificiale di un parco, poiché quest’ultimo deve essere guardato, protetto, salvaguardato anche militarmente, per restare natura. La città è molto meno artificiale in questo senso. Questo è il nostro tempo, il tempo dell’artificio, non della natura. Siccome la natura può diventare più fragile, il ruolo del nostro lavoro di architetti è proteggerla con una forma chiara. Un modo è tentare di farle vivere assieme, senza farne una parodia, senza fare edifici che sembrino alberi, o coprire le facciate con prati verdi. Nell’architettura l’artificio si è sempre integrato nella natura, trovando ogni volta una nuova forma di equilibrio.

Quale è il ruolo della figura dell’architetto nel XXI secolo in termini di presenza sociale e culturale? Quale è il suo ruolo civile, quale è la sua missione?

Io credo molto spesso gli architetti rischino di uscire dal loro ruolo, che è fare architettura, e tentare di diventare altro: poiché sono architetti, pensano di poter diventare politici, e io credo che questo sia un errore. Un architetto è un architetto, fa architettura, discute di architettura, insegna architettura. L’architettura è un lavoro molto vasto e ciascun ruolo ha lo stesso valore. Il problema è che, da quando l’architettura è diventata una professione molto riconosciuta, diverse persone pretendono di avere la capacità di fare altre cose. Non è che se uno è un buon politico allora diventerà un buon architetto, o viceversa. Una cosa non implica l’altra ma nemmeno la esclude.

La nostra missione sociale, la ragione di vita, quale è, quindi? Quando ci svegliamo la mattina perché progettiamo?

La nostra ragione è fare diventare il mondo migliore con la trasformazione che l’architettura comporta. È una responsabilità, enorme! Il nostro lavoro consiste nel riflettere sul rapporto tra la migliore condizione fisica e culturale che un uomo vive con il suo intorno.

Se le domandassi di lasciarci una parola da portarci a casa su cui riflettere, una sola, quale sarebbe?

Vita.

 

November 2018

by Andrea Crudeli, Riccardo Bartali